canto africano
romanzo autobiografico
Canto africano, con la sua struttura circolare – in cui l’inizio coincide con la fine – è quasi un diario di viaggio, da Milano al centro dell’Africa, attraverso un deserto del Sahara superato con mezzi di fortuna e fra mille contrattempi apparentemente distruttivi, in realtà portatori di incontri significativi.
Federica osserva, a volte si piega morbidamente, a volte si oppone e si ribella con rabbia. Ma anche quando è vittima di soprusi è sempre cosciente della sua profonda indipendenza e forte della sua inattaccabile libertà di donna.
C’è una pedagogia anche nella violenza, quasi indifferente ed oggettiva, della tempesta di sabbia nel deserto che si compie nella sua ineluttabilità, fermando il tempo esterno per divenire un tempo interiore, di esplorazione di sé e di indagine sulle ragioni del vivere o del morire.
Il romanzo insegna che intelligenza è spirito di adattamento che non può superare, però, codici etici che appartengono a confini interiori e non sono solo il frutto d’imposizioni.
Caratteristiche: formato 14×21, brossura cucita, copertina patinata a colori con alette
Pagine: 176
Prezzo: euro 15,00
Edizioni: Il Ciliegio
ISBN: 978-88-88996-10-3
capitolo primo
Il ritorno a casa
Erano quasi le 9 quando, quel sabato mattina, composi il numero della trattoria dei miei.
“Pronto,Trattoria Valzer” rispose subito mia madre.
“Ciao mamma, sono io.”
“Cosa è successo? Non sei a scuola?” chiese, dando per scontato che si trattasse di mia sorella. Nonostante Marta fosse più giovane di sette anni, al telefono avevamo la voce pressoché identica. Io ne avevo compiuti ventiquattro da poco.
“Mamma, sono Federica.” Poi, più nulla.
Fu come se il peso degli ultimi mesi mi presentasse improvvisamente il conto. Immaginai la confusione di mia madre e il suo sollievo nel sentire la mia voce, ma anche l’ansia e la sofferenza che le avevo procurato con i miei lunghi silenzi. Immaginai mio padre nel tentativo di rincuorarla senza troppa convinzione. In fondo era stato proprio lui, qualche tempo prima, di fronte alla mia intenzione di intraprendere un viaggio di una ventina di giorni in Africa, a replicare:
“Volevo ben vedere se su tre figli, non ce ne fosse almeno uno con lo spirito d’avventura!”
Certo, di un’avventura si era trattato. Quanta incoscienza ci avevo messo? Avevo lasciato che gli eventi segnassero il passo per me. Mi ero limitata a seguirne l’onda senza poi riuscire a venirne fuori. Sentivo dentro, così forte e a livello fisico, il cuore che si accartocciava e lo stomaco che cercava di contenere i sensi di colpa e l’irresponsabilità, al pensiero del dolore che avevo provocato ai miei genitori.
“Pronto?” dissi, per la terza o quarta volta.
“Pronto, sì… Federica… dove sei?” rispose mia madre. La sua voce era così debole che quasi non la capivo. Piena di incredulità, faceva brevi pause per sforzarsi di non piangere.
“Dove sei?” ripeté, con un filo di voce.
“Sono all’aeroporto di Roma e arriverò a Milano con il prossimo volo, verso le dieci e mezzo.”
“A Roma? Stai tornando? Come stai? Non ti muovere da Milano. Mando il papà a prenderti all’aeroporto. Mi raccomando, non ti muovere da lì.” Riuscì a dirlo tutto d’un fiato, come se respirare fosse una minaccia al mio convincimento. A ogni parola l’emozione rischiava di sopraffarla, ma riconobbi la determinazione nell’indurmi a fare ciò che chiedeva. La paura di perdermi di nuovo era evidente, paura che potessi, ancora una volta, fare di testa mia.
“Mi raccomando …“ insistette, “aspetta papà all’aeroporto!”
L’altoparlante annunciò il mio volo e gliene fui grata. Mi permise di mascherare l’emozione e la voglia di farmi trascinare da un pianto travolgente che faticavo a contenere.
“Sì mamma, l’aspetterò. Ciao.”
A Milano, appena messo piede in aeroporto, tutto mi apparve strano. Prima di tutto gli odori… mi calarono in una realtà così diversa da quella che, fino a poche ore prima, mi aveva avvolta, che quasi non riuscivo a respirare. Ma c’era qualcos’altro.
Il controllo del passaporto mi fece pensare a quanti altri funzionari avevano sfogliato quel documento negli ultimi mesi. Alcune volte serenamente, altre un po’ meno… poi, sull’onda dei ricordi, capii.
Erano i volti delle persone. Intorno a me erano tutti bianchi, o meglio, di razza bianca. Io arrivavo dal continente africano, dove ero stata circondata per mesi da facce scure e movenze aggraziate di persone che sembrano danzare anche quando stanno immobili. Mi portavo dentro la sensazione di appartenere a quella gente. E mi sembrò di avere lasciato l’Africa per sempre.
Era questo, più di ogni altra cosa, a farmi stare male.
Con il passaporto stretto fra le dita, quasi con la paura che i suoi timbri potessero svanire – e con loro la conferma dei miei spostamenti – e un sacchetto di plastica con poche cose nell’altra mano, mi avviai verso l’uscita.
Quando vidi mio padre farsi strada fra le persone accalcate, non riuscii più a trattenere le lacrime. Cercai di farmi forza e, un po’ vergognosa per gli sguardi indagatori, allungai il passo verso di lui. E fu ancora peggio. L’abbraccio fu impacciato e intenso al tempo stesso. Mio padre era un uomo di 58 anni vecchio stampo che, come molti della sua generazione, non riusciva a trasmettere le proprie emozioni. Non ricordo di lui altri abbracci ma quello lasciò il segno.
Non riuscivamo a parlare nonostante le mille domande in sospeso, singhiozzavamo senza freno. Poi, con gli occhi rossi e molto imbarazzo, mi guardò dolcemente mentre soffiava rumorosamente il naso.
“Non hai preso la tua valigia?” mi chiese, riponendo il fazzoletto rigorosamente di cotone.
“È tutto qui” dissi, mostrando il sacchetto di plastica.“Non ho nient’altro.”
Mi guidò fino all’auto e, dopo l’unica domanda davvero importante “Stai bene?”, “Sì papà, sto bene”, restammo in silenzio finché non arrivammo all’imbocco autostradale che dal Viale Forlanini immette sulla Tangenziale Est, direzione Venezia.
I miei gestivano una Trattoria in un paesino sul Lago di Garda. Ci sarebbe voluta un’oretta per arrivarci.
“Fra una settimana esatta, avrei preso l’aereo per Accra” disse mio padre, “sarei venuto a cercarti.”
“Come, senza nemmeno sapere dov’ero?” replicai allibita.
“In qualche modo ti avrei trovato.” Rimasi molto colpita dalla sua risolutezza.
“Mi dispiace che vi siate preoccupati per me. Ma non avete ricevuto le mie lettere?”
“Abbiamo ricevuto l’ultima all’inizio di agosto, quella in cui raccontavi del furto subìto, e poi un telegramma con “Tutto bene” una quindicina di giorni fa che non ci aveva per niente convinti.
Non sapevamo più cosa pensare. Ho telefonato al Ministero degli Esteri, ai vari consolati italiani in Africa, alle ambasciate… l’unica notizia che abbiamo avuto, circa tre mesi fa, è stata la segnalazione di una ragazza italiana della tua età, piccolina e mora, che faceva l’entraîneuse in un Night-club ad Abidjan, in Costa d’Avorio.”
Dalla descrizione potevo benissimo essere io e, a parte il fatto di non essere mai stata ad Abidjan, papà non sapeva quanto c’erano andati vicino.
“L’Ambasciatore mi ha mostrato tutti i vostri telegrammi” dissi, “e mi ha suggerito di tornare a casa. Ma non c’era bisogno di alcuna spinta. Non vedevo l’ora!”
Assaporavo la sensazione dimenticata di un viaggio verso casa. Nell’aria, tra noi, ancora le mille domande e il timore di farle. Un po’ imbarazzata, dissi:
“Avevo un compagno, papà. Un ragazzo di colore che ho conosciuto a Lagos in aprile. Ci siamo lasciati all’ambasciata di Accra.” A quel pensiero, fu come se il cuore perdesse di colpo il suo ritmo. Buffo, dato che Sami era un musicista.
“Sei innamorata di lui?” mi chiese, senza giri di parole.
“Credo proprio di sì.”
“Ora non pensarci, sei appena arrivata. Se fra un po’… vorrai tornare da lui… io e la mamma ti aiuteremo.” E mentre lo diceva, allungò una mano per stringere la mia.
A quel contatto caldo e affettuoso scoppiammo di nuovo a piangere. Io al pensiero di Sami, lui all’idea di vedermi partire nuovamente per raggiungere un ragazzo sconosciuto e di colore. Non era razzista, ma credo che sarebbe stato più facile se si fosse trattato di un europeo.
Rimasi nuovamente colpita e lo guardai tra le lacrime: quanti capelli bianchi avevano incorniciato la precoce calvizie! Ma, dopo tutto quello che aveva passato e nonostante tutto, si dichiarava ancora pronto ad aiutarmi… E a quale prezzo!
Avrei voluto abbracciarlo e far durare quel momento fino a sentire che il cuore ritrovava, piano piano, il suo ritmo naturale.
Non ricordo molto di più di quella conversazione. Di certo, smisi di controllare ogni emozione, confortata dal contatto di quella mano che mi piaceva tanto. Le dita erano affusolate, la forma delle unghie allungata con una mezzaluna bianca e l’estremità rotonda. Mi piaceva osservare le vene sul dorso gonfiarsi seguendo il movimento delle dita. Le mani di mio padre avevano una mobilità molto espressiva e alcuni peli sul dorso le rendevano davvero convincenti. Quando si muovevano erano essenziali, senza ammiccamenti e mai eccessive, come lui.
Avrei voluto innamorarmi di un uomo con una copia esatta di quelle mani.
Entrai nella trattoria per prima. Mio padre, che mi seguiva portando il ‘bagaglio’, sembrò volersi tenere in disparte per lasciare a mia madre il privilegio di avermi tutta per sé.
A quell’ora, al bancone del bar, c’era solo un camionista con il quale lei si sforzava di fare conversazione. Era minuta e non molto alta, anche se a tutti, me compresa, sembrava il contrario per via del portamento fiero e dignitoso. Modesta, a volte persino dimessa, non amava attirare l’attenzione. Portava i capelli scuri raccolti all’indietro in una crocchia sulla nuca, lasciando il volto senza trucco completamente scoperto.
Al mio ingresso s’interruppero senza convenevoli e lei mi corse incontro con un sorriso che era già un abbraccio. Tutta la tensione che aveva accumulato durante l’attesa si dissolse. Mi guardò a lungo ancora incredula poi, in silenzio, riversò su di me una tale quantità d’amore che non avrei più scordato.
Ero a casa. Dopo circa sette mesi, ero finalmente tornata e non so a chi di noi pareva più irreale.